Perché la scelta del
POP come mezzo di comunicazione?
Perché come dicevano i Soerba “I am
very happy because the POP is POP”, ma forse il mio è solo un “Avanti POPolo”, una avanguardia di massa, una
provocatoria contraddizione in termini basata sulla traduzione letterale di
POPular art e quindi sul concetto comune di arte POPolare, o meglio POPolana, cioè
arte del POPolo per il POPolo, l’antonimo della POPart storica riportata su un
piano apparentemente più banale, dove POPolare diventa arte facile, semplice, veloce,
comune, partecipe, di tutti, per tutti, infantile, gioiosa, periferica,
indipendente, autodidatta, naif, eversiva e quindi viva.
Forse
qualcuno più bravo di me potrebbe vederci un appello a una pubblica antiaccademia,
qualcosa che - con il pretesto di attirare l’attenzione dei più - cerca significato
e inganno nell’effimera monumentalità dell’arte “no future”, quella della “street
art” intesa come ultima evoluzione della POPart, dove il folclore urbano da
fonte artistica diventa produttore di arte e suo ultimo fruitore, una chiusura
del cerchio incentrata sul “do it yourself”, dove Andy Warhol non è solo il
genio indiscusso della POPart ma il fondatore della cultura Punk.
Ma questo io non lo so dire, dovresti chiederlo a uno più
bravo di me.
C'è un disegno
concettuale comune, un messaggio, che collega la tua produzione artistica?
Si tratta più di una poetica di fondo, quella
del “ready fake”, che è diventata nel tempo una vera e propria attitudine per
il “mash up”, quindi per le contaminazioni, le citazioni, i riferimenti
incrociati, sempre sospesi tra il sacro e il profano, tra la cultura “alta” e i
sottoprodotti delle subculture underground, oggetti e immagini che una volta
assorbiti in questo “horror vacui” dovrebbero perdere il loro vincolo di
utilizzo al servizio del marketing e essere restituiti ai cieli alti
dell’immaginazione.
Tanto premesso in linea di massima mi
muovo con il cuore e con gli occhi senza svelare tutto quello che mi passa per
la testa, lavorando su almeno tre livelli di significato: quello dichiarato e
apparente, quello intimo e nascosto, infine quello lasciato alla libera interpretazione
del pubblico, che vale per ognuno in maniera diversa e potenzialmente infinita.
Sono
quindi più interessato a scoprire ciò che gli altri riescono a vedere nelle mie
immagini o meglio nei miei giochi, perché io gioco sempre ed è risaputo che in
compagnia si gioca meglio.
Anche
il gioco linguistico ha un ruolo importante nelle mie cose fatte di tratti
netti, campiture sature, colori brillanti e canoni di bidimensionalità, una
sorta di “b-art” che evidentemente non cerca l’espediente tecnico e non termina
sulla superficie dipinta, ma trova la sua prospettiva nella parodia del
messaggio.
In
altre parole, per i cinefili alla lettura, i miei non sono “western” e nemmeno
“spaghetti western”, al limite solo “fagioli western”.
C'è della componente
autobiografica nei tuoi lavori? Se sì, in che misura e modo influenza le tue
opere?
In
linea generale sono molto influenzato da quello che vedo, gran parte delle mie
robe è infatti di tipo illustrativo e si ispira direttamente a rappresentare
immagini vissute in prima persona ovvero mediate da un filtro POP (la copertina
di un disco, la grafica di una maglietta, la locandina di un film, un fumetto,
un videogioco, etc tutte cose che colleziono avidamente) tra supereroi, santi,
giocattoli e bambini.
Quindi
risposta affermativa, quello che vedi nei mie scarabocchi sono io, un cubo di
Rubik.