1 feb 2017

1.2.2017 omino71 x Scomodo n. 2 (intervista)


Perché la scelta del POP come mezzo di comunicazione?

Perché come dicevano i Soerba “I am very happy because the POP is POP”, ma forse il mio è solo un  “Avanti POPolo”, una avanguardia di massa, una provocatoria contraddizione in termini basata sulla traduzione letterale di POPular art e quindi sul concetto comune di arte POPolare, o meglio POPolana, cioè arte del POPolo per il POPolo, l’antonimo della POPart storica riportata su un piano apparentemente più banale, dove POPolare diventa arte facile, semplice, veloce, comune, partecipe, di tutti, per tutti, infantile, gioiosa, periferica, indipendente, autodidatta, naif, eversiva e quindi viva.
Forse qualcuno più bravo di me potrebbe vederci un appello a una pubblica antiaccademia, qualcosa che - con il pretesto di attirare l’attenzione dei più - cerca significato e inganno nell’effimera monumentalità dell’arte “no future”, quella della “street art” intesa come ultima evoluzione della POPart, dove il folclore urbano da fonte artistica diventa produttore di arte e suo ultimo fruitore, una chiusura del cerchio incentrata sul “do it yourself”, dove Andy Warhol non è solo il genio indiscusso della POPart ma il fondatore della cultura Punk.

Ma questo io non lo so dire, dovresti chiederlo a uno più bravo di me.


C'è un disegno concettuale comune, un messaggio, che collega la tua produzione artistica?

Si tratta più di una poetica di fondo, quella del “ready fake”, che è diventata nel tempo una vera e propria attitudine per il “mash up”, quindi per le contaminazioni, le citazioni, i riferimenti incrociati, sempre sospesi tra il sacro e il profano, tra la cultura “alta” e i sottoprodotti delle subculture underground, oggetti e immagini che una volta assorbiti in questo “horror vacui” dovrebbero perdere il loro vincolo di utilizzo al servizio del marketing e essere restituiti ai cieli alti dell’immaginazione.
Tanto premesso in linea di massima mi muovo con il cuore e con gli occhi senza svelare tutto quello che mi passa per la testa, lavorando su almeno tre livelli di significato: quello dichiarato e apparente, quello intimo e nascosto, infine quello lasciato alla libera interpretazione del pubblico, che vale per ognuno in maniera diversa e potenzialmente infinita.
Sono quindi più interessato a scoprire ciò che gli altri riescono a vedere nelle mie immagini o meglio nei miei giochi, perché io gioco sempre ed è risaputo che in compagnia si gioca meglio.
Anche il gioco linguistico ha un ruolo importante nelle mie cose fatte di tratti netti, campiture sature, colori brillanti e canoni di bidimensionalità, una sorta di “b-art” che evidentemente non cerca l’espediente tecnico e non termina sulla superficie dipinta, ma trova la sua prospettiva nella parodia del messaggio.
In altre parole, per i cinefili alla lettura, i miei non sono “western” e nemmeno “spaghetti western”, al limite solo “fagioli western”.

C'è della componente autobiografica nei tuoi lavori? Se sì, in che misura e modo influenza le tue opere?

In linea generale sono molto influenzato da quello che vedo, gran parte delle mie robe è infatti di tipo illustrativo e si ispira direttamente a rappresentare immagini vissute in prima persona ovvero mediate da un filtro POP (la copertina di un disco, la grafica di una maglietta, la locandina di un film, un fumetto, un videogioco, etc tutte cose che colleziono avidamente) tra supereroi, santi, giocattoli e bambini.

Quindi risposta affermativa, quello che vedi nei mie scarabocchi sono io, un cubo di Rubik.