Omino71 per "Donne in cronaca" di M.Vittoria De Matteis
"proposte concrete da 10 uomini su come sensibilizzare il loro genere al problema del femminicidio"
prefazione di Massimo Marneto
f.to 14x21, 124 pagine, brossura
un estratto dal mio piccolo contributo:
“Uccisa a martellate e nascosta sotto
il letto”, “uccisa e messa dentro un congelatore”, “bruciata viva dal fidanzato
sedicenne”, non sono i soggetti malsani di altrettante sceneggiature di
horror-thriller, ma alcuni estratti dalla cronaca di casi di femmicidio
commessi in Italia, il bel paese che (dati CGIL) conta una media di quasi un
assassinio ogni due giorni: dal 2000 al 2012 sono stati infatti registrati 2200
casi di donne uccise da uomini violenti, una media di 171 omicidi all’anno,
gran parte delle quali commessi in un contesto affettivo, ad opera di compagni,
mariti, fidanzati, ex, uomini, ex uomini appunto… in pratica dal primo luglio
2009, data di nascita del blog “RomaStreetFood”, sono state commessi circa 684
assassini, più di quanti post sono riuscito a pubblicare come artista e blogger
che scrive di arte, di cibo, di strada, di Roma e difatti non so esattamente
cosa ci si può aspettare da un mio contributo su un tema grave e dal peso
specifico così importante, di certo sono un uomo (o un omino, o meglio un
omino71) e quindi un genitore maschio, un compagno maschio, un figlio maschio,
un fratello maschio, un amico maschio, un maschio di una femmina e quindi padre
di una bambina femmina, marito di una moglie femmina, figlio di una madre
femmina, fratello di una sorella femmina, amico di una amica femmina, insomma -
statistiche alla mano - un potenziale femminicida (o peggio femmicida), un po’
come il bambino nudo che Oliviero Toscani ha immortalato qualche tempo fa in
una campagna pubblicitaria contro la violenza sulle donne, un potenziale
carnefice in quanto maschio, cosa che però non mi ha proprio persuaso. Infatti
pur comprendendo la valenza comunicativa di questo tipo di campagne,
l’approccio del “purché se ne parli” non mi convince troppo e non mi piace
nemmeno l’idea di trattare con tanta apparente superficialità temi così
importanti, approssimando una idea, un ideale o un valore a un prodotto da
osservare, consumare e poi dimenticare una volta tornati nella routine di tutti
i giorni… no, non è questa la strada che seguirò in questo mio piccolo
contributo, anche se forse sarebbe più semplice per me cavarmela lanciando un
progetto di street art basato su delle installazioni con enormi fiori disegnati
e messaggi del tipo “solo con un fiore”, perché alla fine qualcuno ne
parlerebbe per qualche ora ma nessuno capirebbe qualcosa di più e credo invece
che l’importante non è che se ne parli, ma che la gente capisca (soprattutto
noi maschi) e per capire è necessario sentire e vivere le cose e non soltanto
vederle passare accanto come uno spettatore.
Inutile anche metterla troppo sul
personale e scrivere della mia esperienza di “maschio sensibile”, dilungarmi su
quanto sono convinto di essere un buono, su quanto lo sono stati i miei
genitori, sull’esempio che mi hanno dato, su quello che cerco di trasmettere ai
miei figli, sul ruolo della mia famiglia, etc, servirebbe a pochi e
ancora meno sarebbero quelli che potrebbero mettere la mano sul fuoco sulla
autenticità delle mie parole, del resto tante brave persone si sono dimostrate
capaci di cose atroci e le cronache in questi anni non ci hanno risparmiato
niente, compresi i casi di genitori apparentemente “normali” che uccidono i
figli per vendetta nei confronti del partner, per loro non so nemmeno se Dante
ha previsto un girone ad hoc o preferito non prenderli nemmeno in
considerazione.
Insomma colgo questa occasione per
tentare un approccio diverso, un po’ più intimo ma al contempo valido per
tutti, cominciando con il chiarire di che cosa stiamo parlando: il “femmicidio”
è un omicidio di una femmina da parte di un maschio, quindi un omicidio, la
forma più estrema di violenza, il punto di non ritorno di una serie molto
articolata di brutalità e maltrattamenti, il “femminicidio”, che comprendono
tanto forme sottili (dalla pressione psicologica al condizionamento sociale e
culturale) quanto più grossolane (dalla molestia verbale alla violenza fisica
fino al tentato omicidio), spesso con implicazioni di natura sessuale o
comunque pertinenti la sfera affettiva nel rapporto tra un maschio (carnefice)
e una femmina (vittima) ed è da qui che vorrei iniziare, dalla violenza
sessuale che non si traduce necessariamente in un omicidio ma non per questo
appare meno grave e lo voglio fare riportando una breve aneddoto basato sul
libro “In Vespa da Roma a Saigon” di Giorgio Bettinelli. Tra le tante avventure
del mio eroe a due ruote, sono stato infatti colpito da un episodio relativo a
un passaggio in una zona desertica, durante il quale Bettinelli veniva
accompagnato da una guida locale, un gigante silenzioso dai modi apparentemente
bruschi che viveva gran parte del tempo completamente isolato dal resto del
mondo. Nel resoconto viene descritto l’espediente trovato dal gigante per
prolungare il loro passaggio e costringerli a un pernottamento non programmato
e quindi a una breve convivenza in tenda, durante la quale il gigante tentò
delle “avances” al cui rifiuto non seguì alcuna conseguenza per Bettinelli, se
non quella di passare una notte in bianco con le spalle ben ancorate al suolo.
Quando ho raccontato questa storiella alla mia compagna, con tono divertito e
al tempo stesso allarmato per una tale possibile disavventura, lei sorridendo
mi ha fatto un lunghissimo elenco di episodi altrettanto inquietanti che
“normalmente” una femmina è costretta ad affrontare dai maschi locali (non da
quelli del deserto che si incontrano una volta nella vita se si decide di fare
il giro del mondo in vespa in solitaria) e fin dai tempi dalla pubertà: un
repertorio che comprendeva proprio di tutto, dall’allusione sessuale affilata
del collega alla battuta volgare dello sconosciuto, dallo sguardo indiscreto
verso qualsiasi scollatura al tentativo di palpeggiamento sul mezzo pubblico,
dalla mail piccante del conoscente al fischio per strada del truzzo stile
“gallo cedrone”, dall’invadenza del singolo non contraccambiato alla pressione
del gruppo trasformato in branco invasato, per non parlare del conseguente
portafoglio di “precauzioni” che si è costrette a prendere per cose banali
quali indossare una minigonna, andare a un appuntamento, ritirare una macchina
in un parcheggio, passeggiare la sera, etc. Insomma mi sono sentito un perfetto
cretino: pur considerandomi una persona sufficientemente sensibile ho
dimostrato quanta poca confidenza abbiamo noi maschi con l’idea di poter essere
violati e quindi la scarsa empatia rispetto a quello che prova quotidianamente
l’altra metà della mela (senza parlare delle implicazioni omofobe che
meriterebbero un capitolo a parte). Ho cominciato quindi a congetturare
sull’eventualità di subire delle violenze da qualcuno fisicamente più forte di
me e alle conseguenti limitazioni alla mia libertà personale e solo dopo questo
esercizio ho cominciato a “sentire” e non soltanto ad “ascoltare” la questione
del femminicidio, immaginando cosa si poteva provare nel sentirsi seguiti, nel
sentire i passi alle spalle e cominciare a pensare cosa fare se…, nel pensare a
cosa si prova quando qualcuno ti si affianca per strada con tono minaccioso,
etc. in breve a tutto quello che le donne sanno perfettamente perché almeno una
volta nella vita gli è capitato e qualche volta se la sono vista anche brutta.
Poi sono passato a immaginare questa idea di violenza perpetrata non più da uno
sconosciuto, ma da una persona della mia sfera affettiva e la situazione da
inquietante è divenuta terrorizzante, perché l’idea di non potersi nemmeno
rifugiare tra le mura domestiche e anzi temere di essere violati e addirittura
uccisi da una persona con la quale si è percorso un pezzo di vita insieme è
assolutamente inaccettabile.
Per concludere credo che se io
maschio riuscissi a essere più empatico con la “mia” femmina potrei realizzare
che il femmicidio è anche la forma più meschina di suicidio possibile, in
quanto lo sforzo di comprendere appieno il suo stato d'animo, di andare non
solo verso lei, ma anche di portarla nel mio mondo (e viceversa), mi aiuterebbe
a riconoscere la parte di femmina che è in me, così che quel “mia” non sia più
solo inteso come un aggettivo di possesso, ma anche e soprattutto un sostantivo
che identifica una parte della “mia” persona, quella che riesce a specchiarsi
nella compagna, nella madre, nella sorella, nella figlia, nell’amica e che
quindi rifiuta, in quanto autolesiva, ogni pratica violenta fisica o
psicologica che attenta all'integrità, allo sviluppo, alla salute, alla
libertà, alla vita.
Chiudo nel ribadire che è senz’altro
utile organizzare eventi, manifestazioni, aprire dibattiti pubblici, informare,
denunciare, fare rumore “purché se ne parli”, ma non illudiamoci che questi
sforzi “dall’alto” riescano a toccare la coscienza civile e quindi diminuire
gli abusi contro le donne. Penso che affinché le parole “femmicidio” e
“femminicidio” non vengano più sottovalutate, svilite, criticate o negate sia
anche necessario che nel quotidiano gli uomini di buona volontà comincino “dal
basso” a raccontare alla macchinetta del caffè storielle come quelle di
Bettinelli e iniziare a tentare di capire insieme la vera natura di questa
tragedia. E per i tanti che continueranno a pensare che sia qualcosa che non li
riguarda o peggio che addirittura le donne uccise o violate in fondo, qualche
sbaglio l’avevano fatto, ancorandosi quindi su una concezione squilibrata dei
rapporti tra uomo e donna, tanti altri invece realizzeranno che fare del male a
una donna è una vera infamia, maturando magari l’idea di maschio come sesso
veramente forte, la forza di non riuscire a toccarla nemmeno con un fiore,
anche e soprattutto quando si è convinti che sia stata lei ad aver sbagliato.